La Grande Guerra

LA GRANDE GUERRA   –   LE MEMORIE DIVISE

Quando il comandante di un drappello di cavalieri italiani dopo aver superato il confine austriaco dalle parti di Cervignano il 24 maggio 1915, come racconta Paolo Rumiz in “Come cavalli che dormono in piedi”, si rivolse per sapere dove fosse il nemico ad un vecchio seduto sulla porta di casa, il contadino rispose, senza turbarsi, che il nemico era l’ufficiale italiano e i suoi uomini. Nel mondo giuliano a Trieste e in Istria la Grande Guerra iniziò nel 1914 e non nel 1915 .Soltanto nei primi cinque mesi, da agosto a dicembre 1914, nella Galizia, nel sud della Polonia, la guerra aveva divorato due milioni di uomini dell’impero tra morti, feriti e prigionieri. Qualche anno prima di morire, nel 1959 mio nonno materno mi ritenne maturo per svelarmi tutto l’orrore di quel periodo perché voleva che io ne conservassi la memoria. Ero al corrente della tragedia del Carso e della Marna ma non sapevo che la Galizia e i Carpazi fossero una voragine: l’inferno più atroce che si potesse immaginare. Le continue avanzate e i ripiegamenti disordinati e in preda al caos stritolarono milioni di austro-ungheresi e russi. Tra i boemi, croati, slovacchi, austriaci, ungheresi, polacchi c’erano i nostri nonni giuliani. Erano dentro e fuori, assediati e all’attacco di piazzeforti come Przemysl: quarantaquattro kmq con cinquanta grandi fortezze collegate. Centotrentamila austro-ungarici vennero assediati da oltre trecentomila russi in un susseguirsi di sortite austriache e centinaia di migliaia di civili, accusati di spionaggio ed intesa col nemico, furono soppressi dopo violenze inenarrabili. Il nonno ricordava l’incubo dei cosacchi: furie umane che a cavallo piombavano sui fanti austriaci immersi nel fango che li immobilizzava. Poveri esseri accerchiati e decapitati senza pietà dalla sciabole di queste orde. Dopo due anni di guerra fu ferito e ricoverato in un ospedale di Praga. Si calcola che ben ventimila uomini delle terre irredente giuliane fedeli sudditi dell’imperatore persero la vita. Con l’annessione all’Italia sparirono nel nulla. Le liste dei morti furono occultate. Si chiede Rumiz: cosa costava all’Italia ammettere che questi uomini erano morti anche se con la “divisa sbagliata” per difendere la patria? (la terra dei padri). D’altra parte Sergio Romano in uno dei suoi saggi valuta il costo in vite umane delle potenze partecipanti alla Grande Guerra. Ma nella sua lista non figurano i morti dell’impero austro-ungarico. Mio nonno paterno al suo ritorno a Pola, a guerra finita, fu diffidato dai carabinieri italiani a raccontare ciò che aveva vissuto. Si salvò dai campi di rieducazione collocati nell’Italia centro meridionale soltanto perché era un noto irredentista. Diverse centinaia di migliaia di soldati italiani, di cui soltanto 250 mila fatti prigionieri durante la disfatta di Caporetto (Kobarid), ricevettero al loro rientro un trattamento spietato e criminale. I vertici militari italiani fecero ricadere l’onta della diserzione sul povero fante contadino. Durante la prigionia nei campi austriaci e prima della guerra le autorità avevano bloccato l’invio dei pacchi alimentari da parte dei loro congiunti, a loro destinati. Il governo italiano, a guerra finita, si dimostrò generoso, probabilmente per propaganda, nei confronti della popolazione austro-ungarica, organizzando convogli di aiuti. Escluse categoricamente il rifornimento ai prigionieri italiani considerati dei “felloni” e meritevoli non di pane ma, di “piombo”, come affermato dal governatore di Trieste a chi lo implorava di soccorrere quei disgraziati. Commissioni di inchiesta organizzate dallo Stato Maggiore Italiano si affrettarono, a guerra conclusa a punire utilizzando il codice di guerra coloro che aveva giudicato, disertori. Il colonnello Pietro Badoglio, invece, storicamente considerato tra i veri responsabili della tragedia fu nominato generale, maresciallo d’Italia e, successivamente, Presidente del Consiglio italiano.

LA GRANDE GUERRA  –  GLI IGNOTI CON LA DIVISA SBAGLIATA

Negli anni settanta del secolo passato raccolsi le confidenze e lo strazio di un’anziana signora, classe 1899. Nel 1914, alla fine dell’estate, vide partire dal suo paesello istriano i suoi giovani ammiratori, convinti di poter ritornare entro Natale. Dopo poche settimane dalla loro partenza iniziò a diffondersi un panico collettivo nella comunità istriana. All’inizio dell’autunno decine e decine di famigliari dei soldati furono visitati dagli addetti militari governativi. Interi reggimenti si erano dissolti nell’inferno galiziano. L’unica speranza per i loro cari è che fossero stati catturati dai russi. Una tragedia analoga, forse superiore, colpirà le comunità slave istriane venticinque anni dopo. Alla fine di ottobre 1943 con l’operazione “Wolkenbrueck” (nubifragio) i nazisti, appoggiati da formazioni italiane di fascisti, carabinieri, questurini ed ex militari coinvolti nel più lurido mestiere di collaborazionisti nei rastrellamenti e rappresaglie, stroncarono la resistenza partigiana istriana. Fu un’ecatombe. Arrigo Petacco, autore del libro “Esodo”, al capitolo “ La riconquista nazifascista dell’Istria”, parla di quindicimila caduti e prigionieri. Si ritiene che tutte le famiglie slave istriane ebbero la perdita di uno o più componenti. Un mio zio acquisito del contado parentino, profugo successivamente a Roma, fu l’unico della sua famiglia a salvarsi, perché fuori casa. Gli altri dieci familiari furono trucidati dalla teppa fascista mentre erano seduti a tavola e pronti a consumare il pranzo. Il fratello di mia madre, diciottenne, fu catturato dai nazi-fascisti in quella occasione, e seguì la sorte, dopo una generazione, di quei coscritti del 1914 che sparirono nell’immenso fronte austro-russo.

CARSO  –  IL SACRIFICIO IRREDENTISTA

Il manipolo degli irredentisti giuliano-dalmata-trentini evitò la Galizia e combatté sul Carso. La stragrande maggioranza di questi giovani volontari apparteneva alle classi medio borghesi: laureati, studenti, maestri, impiegati ecc.. Avevano ricevuto una formazione improntata ai valori dell’identità italiana scaturiti dalla tradizione familiare, a scuola, nei ricreatorii comunali dove l’etnia istro-veneta era prevalente, nelle associazioni e nelle organizzazioni sportive che si consolideranno durante la presenza italiana ultra ventennale in Istria. Come riportato da “Vergarolla: Un crimine su cui va fatta piena luce” di Paolo Radivo : “Il 18 agosto 1946 a Pola, a Vergarolla, la società nautica Pietas Julia, uno dei capisaldi dell’irredentismo, fu colpita da una strage. Aveva organizzato gare natatorie di tre tipi: la Coppa Scarioni sui 200 metri, la Leva dei tuffatori e il Meeting natatorio istriano 1946. Nel pomeriggio si sarebbero dovuti tenere una gara di tiro alla fune in acqua e un torneo di pallavolo. La sera avrebbe in fine dovuto svolgersi una gran veglia danzante per festeggiare i 60 anni della “Pietas Julia”. L’organizzazione aveva coinvolto qualche migliaio di polesani istro-veneti. Sul piano culturale giocarono un ruolo fondamentale l’amore per la letteratura classica e il richiamo ai valori della Serenissima. Per questi giovani era insopportabile l’idea che l’impero austro-ungarico, dove l’elemento slavo era nettamente maggioritario, potesse evolversi in una comunità triplice austro-ungarico-slava. Gli analisti politici consideravano l’Austria il secondo paese slavo, dopo la Russia. Francesco Ferdinando, eliminato a Sarajevo, veniva considerato il promotore di questa iniziativa. Questa gioventù irredentista, inquieta, non accettava la promiscuità e si sentiva assediata dalla “slavità”. In sintesi l’irredentismo era una via di fuga e un aspirazione all’italianità che viveva esclusivamente nella loro fantasia. Non va sottovalutata, inoltre, una rivolta generazionale che, se in Italia si opponeva a un governo come quello di Giolitti, pragmatico e senza voli di fantasia, nei territori giuliani e tridentini le nuove generazioni si rivoltarono contro quello che ritenevano l’immobilismo imperiale e furono pronti a morire per la nazione italiana. Il loro gesto generoso era lontano dalla posizione gretta e miope degli estensori degli appelli del 1866, cinquantanni prima. Si trattò comunque di un fenomeno, quello irredentista, nettamente minoritario. Nel 1928, Federico Pagnacco calcolò in duemilacento i volontari adriatici. Un numero che secondo Fabio Todero va nettamente ridimensionato perché in esso sono stati inclusi cittadini italiani “regnicoli” temporaneamente residenti nell’impero e trecento austro-italiani prigionieri di guerra nei campi russi che, in parte, allo scoppio della rivoluzione sovietica confluirono in un corpo di spedizione, in estremo oriente. Nell’elenco, inoltre, erano stati inseriti arbitrariamente anche alcuni legionari fiumani provenienti dall’Italia. Alla fine della grande guerra ci furono tra i volontari giuliano-dalmati, trecento caduti. A prescindere dal numero colpisce la loro tragica capacità visionaria e solitaria e la generosità conclusa nel sacrificio. Gli ideali mazziniani, in massima parte, ispirarono Scipio Slapater, Carlo e Gianni Stuparich, Biagio Marin e tanti altri. In molti casi il loro entusiasmo fu raffreddato dall’accoglienza ostile ricevuta dai loro commilitoni italiani. Il soldato italiano costretto a subire la catastrofe della guerra non condivideva l’entusiasmo dell’ “irredentista”, volontario. La macchina militare italiana con la sua burocrazia frappose a questi “cittadini stranieri” una serie di cavilli giuridici. D’altra parte, sul versante austriaco, in Galizia, il reggimento 97° (sieben und neunzig) della K.u.K. (esercito imperiale regio) composto prevalentemente da giuliano-dalmati subì, all’inizio del conflitto una sistematica denigrazione da parte dei vertici tedeschi ed ungheresi. Il fenomeno dell’irredentismo ha, finora, monopolizzato la memoria patriottica italiana. Il fascismo non mancò di strumentalizzare gli irredentisti svilendo il loro sacrificio. Li arruolò nella “rivoluzione fascista” per ribadire la legittimità dell’annessione italiana delle terre giuliane. Durante la seconda guerra mondiale gli ex volontari irredentisti furono tra i principali protagonisti della resistenza al nazi-fascismo. Gabriele Foschiatti e Giuseppe Pogotschnigg furono la dimostrazione, con la deportazione in Germania e il sacrificio della vita, della loro visione patriottica e antifascista.

IMPERO AUSTRO-UNGARICO  –  LA CULTURA COSMOPOLITA

L’Austria non era, come sostenuto dai suoi detrattori, un recinto clericale e poliziesco. La storiografia risorgimentale, per ottenere una totale legittimità, ha instillato nella nostra testa un odio cieco ed irrazionale nei confronti dell’Austria e degli austriaci: mostri e autori dei peggiori misfatti. L’impero austriaco era alla fine dell’ottocento e agli inizi del novecento un entità plurinazionale all’avanguardia perché primeggiava nelle scienze umane e nella tutela delle minoranze e dei diritti civili, nonostante possedesse una struttura di vertice, oligarchica. Anticipava l’Unione Europea in contrapposizione agli stati nazionali dove un gruppo etnico si considera proprietario esclusivo della comunità statuale e dove la minoranza viene trattata, nel migliore dei casi, come un ostacolo da rimuovere procedendo ad una costante sua assimilazione e, quasi sempre, alla discriminazione e all’espulsione. L’Austria era l’unica struttura possibile che permetteva, nell’Europa centrale e nei Balcani, a nazionalità diverse, di convivere e prosperare. Dal vuoto dell’impero austro-ungarico nascerà il fascismo, il nazismo e la penetrazione sovietica. Dopo la caduta del “muro di Berlino” gli eredi dell’impero austro-ungarico sono diventati “Land” tedeschi come l’Austria e la Cechia o entità xenofobe ed ipernazionaliste come l’Ungheria e gli staterelli nati dalla dissoluzione della ex-Jugolavia. Bruxelles troppo spesso rigida nelle questioni marginali riconosce, al suo interno, queste deviazioni e permette che vengano celebrate in pompa magna le “pulizie etniche” iniziate e concluse negli anni novanta. Vienna prima della grande guerra emanava un fascino culturale al di là dei confini dell’impero. Elias Canetti, ebreo sefardita bulgaro, premio Nobel della letteratura, lo trasmette in “La lingua salvata”. La sua famiglia composta da intellettuali cosmopoliti era stregata dalla cultura e “dal way of life” viennese, come del resto tutta “l’intelligentia” dei Balcani. La città distante dalla sua famiglia quattro giorni di battello, era un miraggio. I genitori avevano studiato a Vienna e frequentato il “Burgtheater”. Tra di loro si esprimevano in tedesco. Il padre terminato il lavoro sprofondava quotidianamente nella lettura della “Neue freie Press”. Il modello umano prevalente nell’impero possedeva l’eleganza viennese dei modi e degli abiti ed era fornito di un marchio di civiltà, di costume e di elastica mentalità imperiale. La sua nazionalità poteva considerarsi parallela al cosmopolitismo austriaco. Un cittadino dell’impero poteva agire da perfetto austriaco e, contemporaneamente, sentirsi ceco, sloveno o italiano. Era in grado di apprezzare la molteplicità culturale e rigettare l’essenza di una monocultura, molto spesso,  punto di partenza per un nazionalismo imperialista.

CAPORETTO INUTILE ECATOMBE

La classe dirigente italiana non entrò in guerra con l’Austria per “redimere” le terre giuliane e trentine. Allo scoppio della Grande Guerra per oltre sei mesi, l’Italia mercanteggiò con l’Intesa e gli Imperi Centrali il suo ingresso nel conflitto. L’opinione pubblica italiana era divisa in due gruppi: il primo neutralista composto dal movimento socialista impregnato di cultura pacifista ed internazionalista, dal movimento cattolico che esprimeva la sua solidarietà all’Austria osteggiata dalla Francia repubblicana e massone ed, infine, dal mondo finanziario ed industriale condizionato dal sistema economico e finanziario tedesco. Il secondo, quello interventista, andava dagli irredentisti di fede mazziniana, ai sindacalisti estremisti ai nazionalisti e, sopratutto, ai massoni italiani ostili all’Austria che dominavano il partito radicale ed erano legati alle “logge francesi”. Salandra, presidente del consiglio, e Sonnino, ministro degli esteri che a più riprese aveva lamentato come l’italiano medio mancasse “del sentimento patriottico”, di fronte alla possibilità di ottenere dall’Austria con l’aiuto tedesco e senza combattere le terre giuliane e trentine, ritennero che nella loro decisione dovesse prevalere la “ragione di stato”.Le istituzioni post risorgimentali avrebbero potuto ottenere un vantaggio morale enorme soltanto con la partecipazione italiana alla guerra a fianco dell’Intesa e contro l’Austria. Un paese come l’Italia disunito anche dopo mezzo secolo dall’ “Unità” era dominato da una classe dirigente ristretta e modesta. Nell’appello del 1866 si faceva notare come il “giovine regno” che si era avvalso, nel 1859 e nel 1866 dell’aiuto straniero, non poteva diventare potenza europea “senza glorie assolutamente proprie perché la virtù delle armi è condizione indispensabile a cementare l’unità della nazione”. Il disegno del re e del governo italiani era quindi, come indica François Feyto, quello “di unificare i particolarismi italiani offrendo loro la prospettiva di fare dell’Italia una grande potenza”. Con la rotta di Caporetto l’Italia ha rischiato la disintegrazione dello stato. Si calcola che oltre settecentomila soldati furono costretti a ritirarsi dal fronte che si era spinto all’interno dalla Slovenia. La rotta durata quindici giorni si fermò sul Piave. Un’ondata di un milione di esuli provenienti dal Friuli e dal Veneto si riversò nella pianura padana. Fu cambiato il capo di stato maggiore. A Cadorna subentrò Diaz. Il re Vittorio Emanuele III fu vicino all’abdicazione. Nel contenimento dell’invasione austriaca fu determinante l’aiuto concreto in termini di uomini e materiali, da parte degli alleati. I vertici del governo italiano che avevano scelto la guerra per consolidare l’identità nazionale fallirono i due obiettivi. I quattro anni trascorsi in trincea stabilirono tra i fanti italiani una comune e temporanea vicinanza. La retorica della patria non poteva risolvere la problematica sociale e culturale, diversa da regione a regione. Come sostiene Mack Smith, il complotto tramato da Salandra e dal re e che spinse nel 1915 l’Italia nella Grande Guerra, aveva strumentalizzato in maniera del tutto irresponsabile il patriottismo. Le macerie lasciate da questo conflitto terribile incisero negativamente sulla storia italiana. Il paese fu distrutto finanziariamente. Il Tesoro calcolò, nel 1930, che il costo della guerra era stato pari ad una somma doppia di quella delle spese complessive dello Stato tra 1861 e il 1914. Il governo italiano non si rese conto di quanto l’Italia, pur vincente, fosse dipesa dagli alleati. Era riuscita a salvarsi da un crollo completo della sua moneta esclusivamente per i crediti ottenuti dagli alleati. Il collasso economico dell’Italia fu immane. Mack Smith ritiene che la guerra vinta nel 1918 sia stata più devastante della cocente sconfitta del 1943, nella seconda guerra mondiale.

POLA   –   IL SOGNO PROIBITO DEL 1866

Gli appelli irredentisti del 1866 anticiparono l’ imperialismo velleitario criminale che con Crispi e Mussolini si concluse, l’8 settembre 1943, in tragedia. In base ad essi l’imperativo categorico della nazione italiana, nella seconda metà dell’ottocento sarà quello di conquistare l’Istria, Pola e l’intero adriatico orientale sbarrando la strada al mondo slavo. Ci riuscì, in parte, con la prima guerra mondiale. Nel 1941 l’esercito italiano invaderà la Dalmazia e parte dei Balcani. Paolo Rumiz fa notare come prima della “Grande Guerra”, nelle pubblicazioni imperiali e nelle mappe geografiche, tutte le città costiere portassero il nome italiano. Il “veneziano da mar” era rimasto per tutto il periodo austro-ungarico, nella lingua della marineria e perfino sulle navi da guerra austro-ungariche. Nelle antologie adottate nelle scuole italiane “irredente” veniva studiato “Le mie prigioni” di Silvio Pellico, un libro notoriamente eversivo per il potere austriaco. I poveri “cafoni meridionali”, furono scaraventati in una terra sconosciuta a morire insieme ad altri contadini italiani che parlavano una lingua incomprensibile per loro. In Puglia a trentanni di distanza dalla fine della Grande Guerra fui avvicinato, durante i moti contadini, da reduci orgogliosi di “avermi liberato”. Il ricordo dei sacrifici indescrivibili e dei commilitoni sbriciolati sul Carso era stato addolcito dalla consapevolezza di aver compiuto un dovere supremo e di aver rivestito il ruolo di “libertatores”, coloro che danno libertà.

LA GORIZIA FRIULANA  –   FIGLIASTRA ITALIANA

La favolistica patriottarda attribuì alla città di Gorizia la medaglia d’oro al valore risorgimentale stravolgendo la storia. François Feyto in “Requiem per un impero defunto” spiega come i cattolici friulani: la forza inter etnica preponderante nella città di Gorizia si fosse pronunciata, nell’ottobre 1918, a poche settimane dalla fine del conflitto, contro l’adesione della città all’Italia. Il nome della città di Gorizia deriva dallo sloveno Gorica (collina). Nel 1001 Ottone III cedeva al patriarcato di Aquileia una “villa quae sclavonica lingua vocatur Goriza “e Hugo Brotius nel 1571 constatava che nella città “loquitur hic illirice, italice e germanice”. Gorizia (Gorz, Gorica) durante l’impero godeva di un “status” privilegiato. Nell’ottocento la famiglia imperiale e la “nomenklatura” austriaca svernavano normalmente nella cittadina dotata di alberghi di lusso e di strutture notevoli tra cui un collegamento ferroviario diretto con Vienna. La città veniva considerata la “Nizza austriaca”. Gli sloveni la ritenevano la loro capitale culturale e vi avevano istituito scuole, istituti superiori, circoli sportivi e rappresentanze economiche. Don Luigi Faidutti, principale esponente del clero goriziano e presidente della Dieta provinciale e parlamentare a Vienna, fu alla fine dell’ottocento l’ispiratore delle casse rurali e delle opere di assistenza che furono, dopo il conflitto smantellate dal fascismo per colpire gli strati più poveri della società e, sopratutto, l’etnia slovena. Gorizia e il fiume Isonzo furono l’epicentro della Grande Guerra. Il territorio fu investito da ben dodici sanguinose offensive. Fu fronte e retrovia. La sua tragedia fu al culmine il 24 ottobre 1917 quando il fronte italiano fu sfondato a Caporetto. I soldati italiani sconvolti da questa giostra infernale straziante la maledissero:

 “O Gorizia tu sei maledetta

Dolorosa ci fu la partenza

e il ritorno per molti non fu”.

Nella primavera del 1918 Gorizia in preda ad una carestia biblica fu costretta a vivere rintanata nelle cantine; la mortalità si elevò dal 28 per mille del 1915 al 45 per mille. Negli ultimi secoli Gorizia era stata considerata dagli scrittori sloveni una sorta di Gerusalemme, un tormento d’amore, di appartenenza, lo stesso tormento dei friulani e degli italiani per vivere una città che fosse esclusivamente una città friulana, italiana, slovena. Un amore esasperato da un’anteguerra, una guerra mondiale e un dopoguerra che rese Gorizia una “piccola Berlino”. Gorizia dopo il 1947 fu contesa tra Italia ed Jugoslavia ed attraversata dalla “cortina di ferro” con il centro urbano consegnato all’Italia. Alla Slovenia, allora Jugoslavia, fu assegnata una zona con il 15% della popolazione, dove fu costruita la città di Novo Gorica per rimediare alla mancanza di un centro amministrativo ed economico, ceduto all’Italia. Nel febbraio del 1968, a vent’anni dalla spartizione, ero a Gorizia per conto della “Rinascente” società leader della grande distribuzione. Trascorsi nella città due notti. Mi resi conto di trovarmi in un territorio stravolto dalla guerra fredda. L’albergo dove ero alloggiato era di fronte alla ferrovia divisa in due e protetta da nidi di mitragliatrici italiane ed jugoslave. Il governo italiano per annacquare la presenza slovena e per costituire un blocco italiano e anti titino ripopolò la città, abbandonata da una larga fetta di etnia slovena, con gli esuli istriani che diventarono una lobby determinante in grado di eleggere sempre, almeno in questi ultimi vent’anni un sindaco di provenienza istriana. Nel 2000 fui incaricato da parte dell’amministrazione provinciale goriziana, di elaborare un piano di promozione dell’area isontina compresa Gorizia, da proporre ai “media” nazionali. A trentanni dal mio primo contatto traumatico con la città scoprii un territorio affascinante. Vi era evidente l’influenza mitteleuropea ed ebraica con la sinagoga costruita nel diciottesimo secolo da una comunità ebraica ashkenazita proveniente dall’Europa centrale germanofona e da quella orientale. La comunità ebraica goriziana era ritenuta insieme a quella triestina tra le più influenti nell’impero austro-ungarico. Le residenze aristocratiche come quella dei Coronini-Kromberg, Trassoldo, Lantieri, Alvarez ecc.,completavano un evidente patrimonio cosmopolita.

L’ETNIA FRIULANA

Nel 1910 nel territorio urbano goriziano l’etnia slovena rappresentava il 51%, il 35%  era friulano e il 3% italiano. L’11% era austro-tedesco, economicamente e socialmente influente per l’impulso dato a Gorizia, nel 1700, da Maria Teresa d’Austria. I friulani non appartengono al ceppo italiano. Partendo da un substrato linguistico formato dal linguaggio celtico dei Carnici, all’isolamento, a partire dall’anno mille, per tre secoli, il Friuli allargato al territorio goriziano rimase legato all’impero germanico indebolendo i rapporti con il resto d’Italia e con ripercussioni sul piano sociale, culturale, lunguistico. Il friulano rimase sopratutto escluso dagli importanti mutamenti linguistici che subiva la pianura padana sotto l’influenza del modello tosco-fiorentino che si impose su tutta la penisola. La fisionomia del friulano si completò in quei secoli di isolamento. Tale fenomeno ha contribuito a maturare un identità completamente autonoma dal mondo veneto e a renderla diversa. Attualmente la lingua, appartenente al gruppo delle lingue reto-romanze è parlata in Italia da circa seicentomila persone e si calcola che all’estero ci sia circa un milione di friulanofoni. Nel 1999 la legge italiana stabilì il riconoscimento al friulano di lingua minoritaria e di pari dignità con la lingua italiana. La normativa favorisce il suo utilizzo nella pubblica amministrazione e nella vita sociale. Omologare i friulani agli italiani, come regolarmente effettuato per scopi nazionalistici, è una evidente forzatura ideologica.

Remo Calcich

Category: carso, grande guerra, Istria

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- 4 Settembre 2015