Esuli In Puglia

ESODO

PROFUGHI MALEDETTI

“Il profugo è sospettato di inaffidabilità politica che mette in pericolo la sicurezza nazionale.
Egli deve affrontare tutti i pregiudizi contro gli stranieri, senza quella protezione che i normali stranieri possono richiedere al loro paese di origine, compensati solo dal fatto che il pregiudizio è temperato dalla compassione suscitata dal loro particolare destino. Hope Simpson “The refugee problem”, report of a survey, Oxford university 1939.
Parole profetiche per coloro che nel secondo dopoguerra hanno subito questo “status”: una maledizione.
In quel periodo, in un momento in cui si assiste alla riaffermazione dei valori della nazione il profugo suscita diffidenza e forti perplessità.
E’ colui che allontanandosi e rinunciando alla Patria è da considerarsi un appestato che va emarginato.
La sindrome dell’esodo si prolunga nel tempo.
Nella fase iniziale si va dalla perdita della terra, all’identità e alla lingua.
Il distacco fisico dei propri morti e l’oblio che ne deriva accelera nell’esule la perdita di equilibri , di protezione , della possibilità di confidarsi e, in ultima analisi, della memoria.
Anche quando infine riesce a rifarsi, col tempo, una vita, una patria e un ulteriore identità non può sfuggire al trauma del distacco.
Confesso che il ricordo più indelebile della mia vita è legato a quella fuga , in un pomeriggio nevoso, da Pola e i giorni precedenti e quelli successivi.
Sono convinto che tutto questo è la chiave per capire le ansie , le cadute, le scelte della mia vita.
Si insinua nell’ immaginario l’idea che, in qualsiasi momento, il destino possa separarlo da tutto il suo mondo.
Impara cosi a considerarlo man mano che lo ricostruisce , provvisorio.
La prima condizione del profugo fu quella di essere segregato.
Hanna Arendt descrive in “Noi profughi” questo status: “Sembra che nessuno voglia riconoscere
che la storia contemporanea ha creato un nuovo genere di esseri umani: quelli che son stati messi nei campi di concentramento dai loro nemici e nei campi di internamenti dai loro amici”.
In molti casi i campi di concentramento si trasformarono in campi profughi.
La volontà del profugo di inserimento viene vista come una pretesa inaccettabile perché ottenuta a scapito del cittadino inserito che lo vede molto spesso come un usurpatore del suo posto di lavoro.
L’unico imperativo per il profugo è il tentativo di mimetizzarsi e dimostrare un totale conformismo filo governativo.
Daniele Ceschin autore di “Esuli di Caporetto – profughi in Italia durante la Grande Guerra” pone in evidenza l’odissea dei profughi vittime della rotta di Caporetto.
Seicentomila civili, donne vecchi e bambini nell’ottobre 1917 furono costretti ad abbandonare Udine, Venezia e la provincia di Treviso.
I fuggiaschi di pura etnia italiana, “regnicoli” dal 1866, erano il segno tangibile di una guerra “quasi persa”.
Il regio esercito con la sua propaganda aveva alimentato panico e confusione sostenendo che l’esercito austriaco che straripava nel Nordest era composto da etnie barbare, da turchi, slavi, bulgari, assetati di sangue ed autori comprovati di violenze di massa.
I profughi furono sventagliati sul tutto il territorio nazionale e subirono in molti casi l’ostracismo da parte delle popolazioni locali.
Il governo Orlando diffidò sempre del patriottismo delle popolazioni del Nordest al punto di accusare i bambini dei rifugiati di aver fornito indicazioni al nemico.
Successivamente, a conclusione della Grande Guerra, l’Italia che si considerava uno stato nazionalmente compatto negò la sostanza plurietnica giuliana incomprensibile e pericolosa perché meticcia.
Alla ricerca dei cosidetti confini naturali ritenne il Nordest soltanto un area strategica.
Compì lo sbaglio di negare al territorio il minimo di autonomia e considerò le popolazioni autoctone sospette per la loro cultura mitteleuropea.
Il mio patrigno, militare di carriera, pur appartenente all’area liberale giolittiana, nonostante esperienze durature all’estero, non si sottrasse a questa tendenza razzista.
Nel libro dedicato a mia madre confrontando il mondo istriano con quello italiano non esitò a
sentenziare: “Da noi il vincolo famigliare, anche e più nel popolo minuto, è molto più profondo e duraturo…. In Istria quando i figli, sia maschi che femmine, raggiungono un età dai 16 ai 20 anni, se lavorano e rendono sono bene accetti in famiglia, altrimenti i genitori cercano di disfarsene”.
Definisce, inoltre, gli istriani dediti esclusivamente al vino e al libertinaggio.
A dimostrazione di questa tendenza discriminatoria, nel 1949, a due anni dalla prima grande ondata di profughi, il ministro degli interni siciliano Scelba dispose che a tutti i profughi giuliani che chiedevano il rinnovo delle carte d’identità venissero prese le impronte digitali in sintonia con la diceria popolare che ci definiva “banditi giuliani”, parenti stretti del siculo bandito Giuliano pericolo pubblico nazionale numero uno.
Il Vaticano, su sollecitazione dell’alto clero istriano obbligato a subire questo oltraggio, protestò contro questa imposizione.
Scelba, da buon clericofascista, revocò il provvedimento.
Rimase il ricordo dell’offesa.

IL DRAMMA DELLA DISPERSIONE

Indro Montanelli sul “Corriere della Sera” aveva intuito che la nostra fuga da Pola era l’urlo di una popolazione che non voleva rinunciare alla sua identità istriana: “Non vogliono (gli istriani) che i loro figli nascano lombardi o pugliesi o piemontesi”.
Il giornalista non aveva dubbi che il governo italiano si sarebbe comportato con buon senso impedendo la dispersione e la profonda mutazione antropologica che avrebbe subito il nostro popolo.
Il progetto di Antonio di Berti, deputato antifascista polesano, pianificato da ingegneri e urbanisti e caldeggiato dagli alleati prevedeva la concentrazione della comunità esodata a distanza di sicurezza dal confine italo-ugoslavo, nel Gargano, in Sardegna o nel Lazio (a Castelporziano).
La proposta fu respinta da De Gasperi, uomo di centro destra.
Gli istriani andarono dispersi non soltanto in Italia, ma in Australia, in Canada, in Argentina.
La loro diaspora doveva risultare completa .
Sarà la disperata volontà di non perdere l’identità che porterà, con evidente disagio, molti di loro a ritornare in brevi, fugaci e dolorosi soggiorni.

L’ESILIO

La nostra terra d’esilio fu la Puglia.
Nel 1947 eravamo parcheggiati a Brindisi, Batteria Brin, una zona allora completamente disabitata, in un deserto ricoperto da residuati bellici, aspettando la nostra sistemazione definitiva.
Il nostro gruppo completamente isolato, per sopravvivere era costretto a percorrere a piedi , con qualsiasi tempo, quasi trenta chilometri in andata e ritorno verso gli uffici comunali brindisini per elemosinare il sussidio della sopravivenza , a differenza di altri profughi sistemati in città o nella periferia che godevano di un assistenza diretta anche se limitata.
Impiegavamo mattinate intere all’E.C.A. (Ente comunale di assistenza) .
Nella seconda metà degli anni quaranta questi uffici dovevano lenire, con a disposizione poche risorse, povertà estreme.
Dipendevamo completamente da queste entità preposte a fronteggiare il fluire continuo e massiccio di sbandati: reduci, prigionieri e repubblichini (ex combattenti della repubblica di Salò) che nell’impossibilità di emigrare all’estero si rifugiarono in Puglia per non subire le rappresaglie del dopoguerra nelle regioni italiane dove era stata più consistente la Resistenza.
Le mense collettive istituite nelle scuole, nelle parrocchie e, quando il tempo lo permetteva all’aperto, provvedevano a sfamare migliaia di miserabili.
Ricordo che, in queste occasioni, mangiavamo con piatti e posate fissate ai tavoli con piccole e corte catene, per evitare il trafugamento.
Il cibo proveniente dai depositi degli alleati , molto spesso, era avariato.
Ne fui vittima alla fine del 1948, in terza elementare, rimanendo intossicato alla mensa scolastica.
I medici diagnosticarono che il responsabile della lavanda gastrica che subii era stato il salmone in scatola.

PICCOLO ZINGARO

Eravamo riusciti, per accorciare il percorso e raggiungere Brindisi, ad usufruire del passaggio di un rimorchiatore della marina militare usato dalle famiglie di sottufficiali a presidio delle strutture militari, fuori dal porto.
La guerra perduta aveva non soltanto ridotto i ranghi della marina italiana, ma aveva declassato il prestigio dei suoi componenti e delle loro famiglie avulse volutamente dalla popolazione
brindisina che evitavano.
Quando noi profughi ci imbarcavamo, ci posizionavamo nella parte opposta di questi gruppi famigliari decisi a rifiutare qualsiasi contatto.
Capitò che nel momento dello sbarco uno di questi bambini aveva dimenticato su un parapetto un pezzo di pane in parte consumato.
In preda ad una fame perenne mi ero fiondato per recuperare quanto era rimasto del panino.
La genitrice del piccolo frugolo fu più svelta di me.
Si accorse della situazione e con una mano afferrò il pane e con l’altra mi respinse urlandomi “sporco zingaro”.
Il popolo brindisino non ci respinse e fu in grado di provare compassione nei nostri confronti, nonostante fosse ridotto all’estremo.

PUGLIA TERRA DELL’ACCOGLIENZA

Nella primavera del 1943 il nome di Stalingrado fu una parola magica anche in Puglia, sinonimo di una liberazione che sarebbe venuta da oriente, da un condottiero del popolo, Stalin.
Da “I compagni” di Enzo Rava: “Avevamo una grande carta d’Europa, hanno raccontato il pastore Giovanni Falcone e il contadino Antonio Gorgolione, pugliesi, e studiavamo, studiavamo come potevano fare i compagni dell’Armata rossa per venirci a liberare.
Da Mosca vanno a Kiev… liberano l’Ungheria… entrano in Jugoslavia, attraversano anche loro la Drava, la Sava, risalgono la Bosnia fino a Sarajevo poi la Drina fin nel Montenegro, arrivano a Cattaro… attraversano l’Adriatico, sbarcano a Manfredonia e in mezz’ora sono a San Giovanni Rotondo”.
La liberazione venne dal sud, dalla Sicilia e fu “a stelle e strisce”.
Durò un giorno.
Poi fu l’occupazione predatoria che decretò l’inferno per le popolazioni pugliesi.
Il governo “fantoccio” italiano disprezzato dagli alleati e costituito dal re e da una ciurma di ministri fascisti disertori deteneva un potere nominale su quattro province pugliesi: Bari, Brindisi, Taranto e Lecce.
Il sergente italoamericano aveva più potere di un ministro del governo regio.
Si atteggiava a cugino siciliano perché utilizzava parole come “a’ femmina “ (una donna) oppure “ù cristianu” (una persona) per rendere meno ostile la divisa kaki che indossava.
A questa familiarità iniziale subentrava il tono sprezzante e duro e utilizzava l’inglese perché fosse chiaro che considerava i suoi veri compatrioti coloro che appartenevano alla classe dei vincitori.
Alcuni storici, anche di provenienza statunitense, attribuiscono l’atteggiamento illiberale dei “così detti alleati” all’ignoranza delle cose d’Italia.
L’amministrazione alleata fu abile nel trovare un sistema molto ingegnoso e semplice per ricollocare i mafiosi italoamericani di “Cosa nostra” già detenuti nelle galere statunitensi.
Non soltanto li trasformarono in podestà (sindaci) dei paesi occupati ma, affidando loro il potere reale, inquinarono in modo irreversibile la vita economica e sociale meridionale.
Il governo americano si rese responsabile di una clamorosa truffa ai danni della popolazione creando le AMlire.
Dopo alcuni mesi dall’occupazione alla fine del 1943, emisero diciotto miliardi di AMlire pari all’intera massa monetaria già esistente nel territorio meridionale.
Tale misura creò un inflazione spaventosa che provocò la rarefazione della produzione e la “borsa nera”.
Questo caos economico determinò il fermo totale della produzione, l’aumento esponenziale dei disoccupati, l’impoverimento e il tracollo del gettito fiscale.
Il disavanzo statale salì alle stelle.
In termini strettamente economici si trattò di un “prelievo forzoso” a favore delle forze di occupazione. Che non esitarono, al momento del ritiro di dichiarare le Amlire “carta straccia”.
Il sud mantenne l’esercito alleato.
L’aiuto statunitense in termini di prodotti alimentari, tanto “strombazzato” dai loro media, fu gestito dai canali mafiosi che affiancavano il potere militare americano.
Fu completamente inadeguato e tale da non aver impedito che l’apporto giornaliero di calorie a persona, in Puglia, passasse dalle 2.000 del 1943 alle 1006 della metà del 1944.

DEVASTAZIONE MORALE

La presenza per un biennio di centinaia di migliaia di soldati non utilizzati dagli stati maggiori alleati nelle operazioni belliche, che si erano spostate nel centro Italia sulla linea gotica, sconvolse la società pugliese.
Soldati di diverse nazionalità, molto spesso non inquadrati, manifestarono avversione e vandalismo nei confronti della popolazione civile pugliese.
Non soltanto a Brindisi e a Taranto le truppe francomarocchine, rese tristemente famose dal film di De Sica “La ciociara”, ma anche i “civili” soldati inglesi perennemente ubriachi, e i soldati polacchi che nelle Murge baresi impiegavano il loro tempo, nel 1945 e 46, ad assaltare le sedi dei partiti di sinistra e le camere del lavoro, costituirono per la popolazione una fonte di strazio, come risulta dalle relazioni dei carabinieri e della questura dal 1944 al 1948 in Asba, Prefettura di Bari gabinetto III vers.
Ma non si trattava dell’unica piaga sociale.
Un problema enorme fu costituito dalla delinquenza minorile.
Il dopoguerra aveva creato in Puglia centinaia di migliaia di bambini ed adolescenti allo sbando, affamati, cenciosi e organizzati in bande capaci di attaccare i camion militari che trasportavano derrate alimentari, come risulta dalla “edizione padri rogazionisti 1996” che descrive la nascita del “Villaggio del fanciullo” creato per assistere questi minori allo sbando .
Non ho trovato fonti che lo provano, ma ho il timore, come del resto avviene attualmente in Brasile nelle “favelas di Rio”, che si sia provveduto, in molti casi, all’eliminazione di questi “meniños de rua”.
L’onda lunga di questa tragedia minorile l’ho vissuta.
Nelle scuole medie di Brindisi i due terzi dei miei compagni e compagne di scuola avevano vissuto, da adolescenti, la degenerazione morale creata dall’occupazione militare alleata.
Alcune compagne di scuola procaci e babyprostitute nelle pause delle lezioni erano felici di provvedere alla nostra istruzione sessuale mediante striptease ed accoppiamenti acrobatici con i compagni della loro età.
Queste manifestazioni estemporanee non mi scandalizzavano.
La guerra e la promiscuità che ne derivava mi avevano già aperto gli occhi.
Dai documenti delle prefetture pugliesi del periodo postbellico risulta l’impotenza ad affrontare il dilagare della prostituzione e l’esplosione della diffusione della lue (sifilide).
Tra la varia documentazione: M. Magno “ la Puglia tra lotte e repressioni 1944-1967”.
La miseria offriva all’alleato, che pagava con le AMlire, legioni di donne appartenenti persino al ceto medioalto come risulta dalle relazioni redatte dalle autorità locali.
Le strade erano affollate notte e giorno da una soldataglia accompagnata da una squallida compagnia di prostitute.
Un postribolo a cielo aperto.

KASBAH

A Brindisi, a una cinquantina di metri dalla mia abitazione, alla fine degli anni quaranta esisteva una “kasbah”, un agglomerato di decine di tuguri a cui si accedeva da una piccola porta vietata agli estranei: un misto di “basso napoletano” e di “vicinato materano”.
Un formicaio umano con vicoli stretti e impenetrabili.
I bambini non frequentavano la scuola.
Le autorità e gli assistenti sociali non osavano penetrare in questi spazi.
Tubercolosi, meningite, peritonite, e denutrizione falcidiavano i più giovani.
Ho visto tante piccole bare bianche che fuoriuscivano da quella porta maledetta.
L’Italia con la Resistenza aveva espresso un ansia di rinnovamento.
Aveva coinvolto politicamente non soltanto gli uomini e le donne delle formazioni armate, ma anche i contadini del territorio che li avevano nutriti e il clero che li aveva nascosti.
Questi idealisti erano convinti che fosse passato il tempo dei privilegi e della corruzione e dell’Italia impantanata nel trasformismo politico.
Rimasero delusi.
Prese il potere l’Italia che durante la guerra si era limitata a guardare e che nel dopoguerra rifiutò di rendersi conto di quanto era accaduto e non si sentì pronta a rimuovere gli scompensi atavici.
Questo stato d’animo diede luogo ad un movimento politico reazionario: il qualunquismo.
La democrazia cristiana, e poi il “berlusconismo”, furono gli strumenti storici di un Italia amante del quieto vivere e per questo, rinunciando al rinnovamento, fu complice, sotto l’ombrello atlantico, della conservazione e del privilegio.

IL SOGNO CONTADINO

Quando nell’autunno del 1944 il fronte si era spostato oltre Firenze sulla “linea gotica” il governo italiano incluse i partiti della resistenza nel governo compreso Togliatti e il partito comunista.
Il ministro dell’agricoltura Fausto Gullo elaborò una legislazione in grado di spezzare lo squilibrio esistente nelle campagne meridionali.
Questa legislazione , secondo gli esperti agrari progressisti sarebbe stata in grado di rimediare al “vulnus” provocato, nel 1860, dall’annessione violenta del meridione e dalle successive massicce emigrazioni.
La riforma dei patti agrari prevedeva:
– la garanzia al contadino del 50% della produzione che andava divisa con l’agrario;
– la concessione alle cooperative agricole di produzione del permesso di occupare terreni incolti o malcoltivati ;
– un indennizzo ai contadini per incoraggiarli a consegnare i loro prodotti ai magazzini statali;
– la proroga di tutti i patti agrari per impedire ai proprietari di espellere i loro fittavoli;
– la proibizione di ogni intermediazione esterna tra i contadini e i proprietari.
Sarebbe stato il colpo definitivo al “caporalato” tuttora imperante!
Questa legislazione avrebbe posto finalmente lo Stato accanto ai contadini meridionali.
La C.G.I.L., sindacato unitario guidato da Luigi Di Vittorio, si poneva come interlocutore per regolamentare la questione agraria mediante l’imponibile di manodopera che avrebbe obbligato l’agrario all’assunzione di un certo numero di braccianti proporzionale all’estensione della proprietà e un reclutamento di lavoratori tratto dalle liste ufficiali dei disoccupati gestite dai sindacati.
Era troppo.
Dopo l’espulsione del partito comunista dal governo, gli agrari sostenuti dal nuovo ministro dell’agricoltura, Antonio Segni, ricco proprietario terriero sardo, reagirono a queste riforme.
Il ministro cancellò completamente le conquiste dei contadini meridionali.
Il mondo contadino fu terrorizzato con la strage di Portella della Ginestra, in Sicilia, il 1° maggio 1946 e con l’eccidio di Melissa, quando il 28 ottobre 1946, la polizia intervenne in occasione di una manifestazione contadina pacifica e provocò numerosi morti e feriti.
Le classi emarginate non capirono il nuovo clima e reagirono.

GUERRA CONTADINA

I primi conati di ribellione, in Puglia, si verificarono a partire dalla fine del 1943, ad armistizio concluso.
Il 29 dicembre 1943 a San Michele Salentino i contadini non si limitarono a rivendicare riforme economiche, ma si mossero per un cambiamento radicale dei rapporti agrari.
Dopo aver posto barricate all’entrata del paese iniziarono la rivolta al grido di “Viva il comunismo”.
I “banditi cafoni” incendiarono il municipio e i palazzi delle istituzioni impegnando i carabinieri in conflitti a fuoco.
Con l’estromissione delle sinistre dal governo nel 1947, il ministro degli interni Mario Scelba diede allo Stato una svolta definitivamente autoritaria.
La polizia e i carabinieri espulsero dai loro ranghi tutti gli ex partigiani e, come sostiene Paul Ginzburg, in “Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi”, furono incoraggiati dal potere centrale ad intervenire con forza e brutalità contro tutte le manifestazioni operaie e contadine.
In perfetto “maccartismo” il ministero degli interni creò nell’industria di stato un clima di terrore.
Alla fine degli anni Cinquanta furono espulsi dall’arsenale e dal cantiere navale di Taranto centinaia di dipendenti attivisti o simpatizzanti della sinistra, socialisti e comunisti.
Due fratelli del mio patrigno subirono questa epurazione.
Ci si avviò verso uno stato poliziesco.
I limiti di tolleranza furono strettissimi .
La “Celere” inventata dal ex ministro degli interni, Romita, divenne con Scelba lo strumento più idoneo di questa politica autoritaria.
La Repubblica si dotò di un vero e proprio esercito di 250.000 uomini, formato da 70.000 poliziotti, di cui 40.000 in stato di perenne mobilitazione, da 180.000 carabinieri e da guardie di finanza.
Una forza ritenuta idonea per fronteggiare una potenziale guerra civile.
Il regime fascista, perfetto nella repressione, si era limitato a gestire 190.000 uomini!
Le unità celeri del dopoguerra furono interamente motorizzate e consentirono interventi immediati.
Il loro armamento era pari a quello in dotazione ai reparti di “élite” dell’esercito statunitense.
Nel novembre 1947 la pesante situazione sociale provocò la ribellione di un centro importante come Cerignola (Foggia).
La polizia di Mario Scelba pose l’assedio alla città che si concluse con morti e feriti.
Il 18 novembre, a seguito dello sciopero generale che ne seguì, i tumulti si estesero a Trani e a Corato.
Il 20 novembre presero fuoco Campi Salentina e Gravina; il 21 squadre fasciste finanziate dagli agrari attaccarono a Bitonto, con bombe a mano, gruppi di lavoratori.
Il 7 gennaio 1948 mezzi corazzati e blindati assediarono Gravina.
Il 9 febbraio squadre fasciste con l’appoggio della polizia uccisero a San Ferdinando cinque lavoratori e ne ferirono decine.
Il ministro dell’interno militarizzò l’intera Puglia procedendo l’ 8 marzo 1948 a rastrellamenti di tipo nazista.
La polizia operò sopratutto a Corato, ad Altamura, Bitonto, Gioa del Colle, Trani, in pratica in tutta la Murgia.
L’11 marzo i rastrellamenti investirono l’intera provincia di Foggia da Cerignola a San Severo, da Manfredonia a San Giovanni Rotondo.
L’11 aprile a Lizzanello ci furono morti e feriti.

LA RIVOLTA DI ANDRIA

Il 7 marzo 1946, Andria, grosso centro situato nell’entroterra barese, insorse e si battè contro gli agrari perfettamente armati barricati nelle loro residenze, con la polizia che circondava la città.
Il risultato fu di numerosi morti e centinaia di feriti.
Gli agrari non si limitarono a sparare ma assediarono la Camera del lavoro.
Il loro obbiettivo era la cattura di Giuseppe Di Vittorio, ex bracciante di Cerignola, ed esponente di spicco della sinistra.
I contadini e i braccianti sequestrarono i latifondisti e lapidarono i capi delle squadre fasciste che erano riusciti a catturare.
I funzionari dell’amministrazione statale vennero denudati e trasportati nelle carriole.
I militari del battaglione San Marco procedettero ai rastrellamenti dei proletari in rivolta, ma si ritrovarono contro le madri, le mogli e le sorelle dei contadini trucidati: popolane che manifestarono una violenza inaudita.
In questo contesto furono uccise le due sorelle Porro.
Prima che iniziasse la rivolta, i maschi e i servitori della famiglia Porro avevano sparato dal loro palazzo gentilizio sulla folla disarmata e ammassata nella piazza del municipio.
Di fronte alla controffensiva dei contadini fuggirono e lasciarono sole, in balia della furia popolare, due attempate signorine dedite alla preghiera e al ricamo.
Dopo la rivolta migliaia di contadini furono arrestati.
Al processo che ne segui furono condannati 130 imputati.
Negli anni l’episodio fu dimenticato.
Non ci furono in “terra di Bari” intellettuali impegnati ad analizzare e a diffondere lo stato di questo profondo disagio sociale.
Il 14 luglio 1948 Palmiro Togliatti fu ferito gravemente da un studente fascista.
L’apparato dello stato represse duramente lo sciopero inteso come insurrezione generale.
La carica di rivolta espressa dai contadini non si placò.
Dal 1955 iniziò con l’emigrazione lo svuotamento delle campagne pugliesi.
La destinazione fu il nord : nel triangolo industriale e in città come Bergamo, Brescia, Varese, Padova ecc..
Furono i figli dei “cafoni” che , nell’incontro con gli operai settentrionali e i valori della Resistenza portarono nelle agitazioni operaie la loro insoddisfazione al “regime di apartheid” che riservava loro la società settentrionale e la determinazione ereditata delle lotte contadine dei loro padri.

IL TRENO DELLA FELICITA’

Il 29 novembre 1949 la Celere si accanì contro un piccolo paese dell’appennino dauno, Torremaggiore.
Undici anni dopo a Bari al convitto dell’università che ospitava noi borsisti, un mio amico, Federico di Castro, nativo di questo paese, mi raccontò come la sua infanzia fosse stata segnata dalla brutalità poliziesca.
Vide morire due suoi zii e lui stesso fu ferito.
La colpa della sua famiglia era stata quella di aver osato coltivare terre incolte.
Dopo la strage i celerini procedettero di notte e “casa per casa” all’arresto di quasi tutta la popolazione di età superiore ai tredici anni, comprese le donne.
Non furono colpite le famiglie degli agrari e dei cosidetti “galantuomini” organici ai primi.
Il mio amico fu uno delle centinaia di orfani creati dagli arresti di massa
Si mobilitò l’U.D.I. (Unione Donne Italiane), composta in prevalenza da donne comuniste.
Con fantasia, capacità organizzativa e determinazione intuirono il dramma di queste popolazioni e salvarono, nella seconda meta degli anni quaranta, 70.000 bambini destinati a perire.
Questi bambini provenivano sopratutto dalla Campania e dalla Puglia .
Furono sfamati, vestiti, educati ed amati, inizialmente dalle famiglie contadine comuniste del mantovano, dell’Emilia, della Romagna e delle Marche.
In questa gara di solidarietà che coinvolgeva l’intero territorio ospitante si unirono anche famiglie non comuniste.
La mobilitazione servì per dare a questi poveri esseri spauriti, cibo ed assistenza.
I parroci e gli attivisti cattolici dei loro paesi di provenienza avevano tentato di indurli a desistere dalla partenza creando paure inesistenti.
Secondo queste dicerie i bambini sarebberò stati accolti, nella pianura padana da “lupi mannari”, e da seviziatori assetati di sangue.
Federico ricordava con commozione la famiglia che l’aveva adottato.
Dopo un anno dalla rivolta e dopo un processo interminabile, i suoi genitori furono liberati.
Il mio amico mi rivelò che il momento del ritorno a Torremaggiore fu denso di emozioni.
Da una parte il distacco da un mondo solidale che lo aveva salvato e, dall’altra, la gioia di riabbracciare i suoi.

PUGLIA TERRA DELL’ACCOGLIENZA

Alla fine della seconda guerra mondiale milioni di disperati vagavano in cerca di patria per tutta l’Europa: comunità tedesche, ebrei, prigionieri di guerra, slavi, giuliano dalmati, ecc..
Si trattava di gente perseguitata dall’odio etnico e dalle nuove sistemazioni territoriali.
Aveva bruciato tutti i ponti alle sue spalle e si poneva alla ricerca di una nuova patria.
In Italia, la Puglia devastata ed occupata fu la regione che subì, dalla fine del 1943 alla metà degli anni Cinquanta, invasioni bibliche di migranti, inimmaginabili ai nostri giorni.
Questo fenomeno si era manifestato, per la prima volta, cento anni fa, durante la Grande Guerra, allorché la regione ospitò centoquindicimila militari serbi in fuga dopo l’attacco austroungarico e, a seguito della rotta di Caporetto, circa centomila profughi friulani e veneti.
Dalle cronache pugliesi dell’epoca si nota come l’intera regione si fosse mobilitata nell’assistenza di questi sventurati, poi rientrati, a guerra conclusa, nelle loro zone di origine.
Negli anni Venti le organizzazioni umanitarie della regione intervennero a favore di decine di migliaia di esuli armeni in fuga dalle persecuzioni turche.
Oltre ad esprimere solidarietà a queste popolazioni, gli armeni furono aiutati ad avviare aziende in grado di produrre tappeti orientali di gran pregio.
Queste aziende impiegarono non soltanto centinaia di armeni, prevalentemente di sesso femminile, ma anche manodopera locale.
Anche dopo l’otto settembre 1943, nonostante la paralisi delle strutture statali e locali, non venne meno la tradizionale cultura dell’accoglienza pugliese.
Lo verificai quando mi recai , per la prima volta, nel 1947, a Brindisi al mercato delle verdure. In mezzo a venditori piccoli ed olivastri notai un gigante biondo simile a “Schwarzenegger” .
Si trattava di un ex soldato tedesco rimasto in Puglia , probabilmente, per amore .
Non soltanto era coccolato con gli occhi dalla sua “cozza” brindisina ma, era benvoluto dai suoi compagni di lavoro che avevano l’aria di proteggerlo.
Ed erano trascorsi soltanto pochi anni dalla fine della guerra!
Questa “pietas” la vedevo ribadita nella visita al cimitero tedesco nel “giorno dei morti”. Anche lì le tombe dei soldati germanici erano tutte onorate con mazzi di fiori.

EMIGRAZIONE EBREA

Una migrazione consistente di ebrei ex-internati, intenzionati a raggiungere la Palestina, si riversò nel Salento a partire dalla fine della guerra.
Ospitati in quattro campi in provincia di Lecce: Bagni, Santa Maria di Leuca, Santa Cesarea e Tricase, furono sistemati, in zone considerate già allora di pregio turistico, nelle unità abitative requisite dagli alleati, in gran parte in ville private, nelle scuole e nelle strutture termali.
Il Salento costituiva un trampolino ideale verso la Palestina, perché in possesso di numerosi chilometri di costa che avrebbero permesso loro di imbarcarsi sulle navi noleggiate dalle loro potenti associazioni.
Queste partenze per Israele erano duramente contrastate dal governo inglese, potenza amministratrice del territorio.
Si calcola che circa 200/300 mila ebrei erano in attesa di lasciare l’Europa e gli inglesi concedevano per l’espatrio soltanto 1.500 permessi al mese.
La crisi sociale fu resa ancor più drammatica dalla penuria di alloggi civili dovuta non soltanto ai bombardamenti alleati, ma anche ad una requisizione spietata di alloggi.
L’alleato angloamericano e le orde dei suoi ausiliari dovevano essere sistemati nel migliore dei modi a detrimento della popolazione costretta a vivere nelle campagne, allo stato brado.
A. Degli Espinosa in “Regno del Sud” descrive la situazione:
“I comandi inglesi requisivano gli alberghi, le ville, gli appartamenti dei gerarchi fascisti e dei più ricchi cittadini, poi passavano a requisire gli appartamenti comuni. Possedere una stanza da bagno possibilmente attrezzata era un pericolo. Un repentino ordine di requisizione costringeva con meccanica spietatezza intere famiglie a lasciare la casa in due o tre ore, abbandonando mobili, biancheria, vasellame a disposizione degli ufficiali o dei soldati che dovevano venire ad abitarla.
A Taranto, a Brindisi, come a Bari era uno spettacolo abbastanza frequente quello di un carretto a mano o trainato da un magro cavallo, fermo davanti al portone di una casa mentre donne e uomini piangenti lo caricavano di poche suppellettili, sotto la sorveglianza di soldati inglesi che a volte si degnavano di aiutare con pericolosa energia”.
Quando nel 1948 fui prelevato dal campo profughi di Batteria Brin di Brindisi ed inserito nella famiglia del mio patrigno mi trovai a vivere in uno spazio di circa sessanta metri quadrati, predisposto ad ospitare, prima della guerra, una coppia senza figli.
Questo spazio fu riempito da una tribù oscillante tra i dieci e i venti componenti.
Di questa convivenza di famiglia allargata conservo ricordi positivi, anche se si potrasse per cinque anni, fino al 1953/54.
Noi tre istriani: mia mamma, mia sorella ed io fummo trattati senza troppi convenevoli, ma mai in chiave razzista.
Ritengo che questa comunità pur trovandosi in una situazione miserabile, avesse colto il dramma e il disagio profondo di noi “sradicati”.

VOCAZIONE ALLA SOLIDARIETA’

La vocazione tradizionale alla solidarietà da parte delle genti salentine si manifestò nuovamente, nel dicembre del 1992, durante la guerra balcanica e l’assedio di Sarajevo.
Don Tonino Bello con cinquecento volontari, poiché in quel momento non erano reperibili ulteriori mezzi navali per trasportare migliaia di volontari da Pescara a Spalato, condusse una marcia forzata, a piedi, dal porto dalmata fino alla città bosniaca.
Sarajevo era assediata e sotto il tiro dei cecchini serbi in una atmosfera sconvolta dal maltempo e dalla nebbia.
La presenza di questo vescovo, in fin di vita perché affetto da un tumore allo stomaco, e del suo piccolo esercito solidale aveva rotto l’isolamento e contribuito a sollevare il morale della popolazione stremata.
Don Tonino Bello morirà cinque mesi dopo, il 20 aprile 1993.

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- 4 Febbraio 2016